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INES TABUSSO
00mercoledì 2 agosto 2006 00:33

CORRIERE DELLA SERA
1 agosto 2006
TELECOM, I PM INDAGANO SU MIGLIAIA DI TABULATI
(BIONDANI PAOLO) - a pag.15

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LA STAMPA
1 agosto 2006
IL RESPONSABILE DELLA SICUREZZA AL CENTRO DELL'INCHIESTA INTERCETTAZIONI ABUSIVE PER LA PRIMA VOLTA INCONTRA UN GIORNALISTA E RACCONTA DEI SUOI RAPPORTI CON L'INVESTIGATORE PRIVATO EMANUELE CIPRIANI E DEL PROGETTO «ENIGMA» PER IL GRANDE ORECCHIO DELLE PROCURE
Parla l’uomo dei misteri
Tavaroli, lo «spione» del caso Telecom
di Paolo Colonnello



MILANO. La prima domanda la fa lui: «Ma lei a quale servizio segreto appartiene?» E lei, signor Tavaroli? «Io non sono una spia della Cia, non sono del Sismi, né del Sisde, né del Kgb, né della Stasi... Ho lavorato per Telecom e sono sempre rimasto fedele alla mia azienda e prima ancora alle società in cui ero impiegato. Sono un manager. E sono nei casini».

Il diavolo visto da vicino, come al solito, appare piuttosto innocuo. Un po’ appesantito («è per lo stress di questi ultimi tempi»), si presenta in polo e jeans, casco da moto in mano e un ghiacciolo alla menta succhiato avidamente. Niente a che vedere con le poche foto che circolano sui giornali e lo ritraggono nelle vesti di manager della sicurezza Telecom, in grisaglia e barba curata, più vecchio di quello che appare. Non fosse per quello sguardo d’acciaio che t’inchioda ad ogni domanda, per quella voglia di esplodere che talvolta reprime a fatica, Giuliano Tavaroli si potrebbe scambiare per uno di quei quarantenni arrivati, senza troppi pensieri per la testa. Invece ultimamente non c’è indagine o vicenda misteriosa nella quale ci si giri, dove il nome di Tavaroli non faccia capolino, anzi diventi addirittura la figura centrale di ogni intrigo. Il «diavolo» ha una grande qualità, è un tipo diretto: «Lei è matto da legare: non sono Belzebù. E matti, o in mala fede, sono tutti quelli che sostengono sciocchezze del genere».

Principale indagato

Dunque vediamo: è indagato, anzi, è il principale indagato, per lo scandalo delle «intercettazioni abusive» Telecom con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla diffusione di notizie sensibili; sembra essere il personaggio misterioso che si muove dietro le quinte del sequestro Abu Omar; viene indicato come l’uomo che conosce i segreti del suicidio di Adamo Bove; nelle intercettazioni del Sismi si parla di lui tranquillamente come un uomo prezzolato dalla Cia. Il curriculum ufficiale lo descrive come ex brigadiere dei carabinieri del Ros impegnato nell’antiterrorismo («Ho in casa cinque attestati di elogio del ministero dell’Interno per aver arrestato personaggi come Sergio Segio, Cavallini e Soderini, Ronconi, mi sono occupato con Pomarici dell’inchiesta su Sofri e Pietrostefani...»), ex dirigente di Italtel, ex dirigente di Pirelli, capo della sicurezza Telecom, responsabile del Cnag, centro nevralgico delle intercettazioni per le Procure d’Italia, amico fraterno dell’ex capo del controspionaggio del Sismi Marco Mancini, amico fraterno di Emanuele Cipriani, titolare di una delle agenzie d’investigazioni più importanti d’Italia. Esperto d’informatica, esperto di analisi antiterrorismo, conferenziere in Bocconi, docente in Cattolica, considerato (basta cliccare su Google) il numero uno della sicurezza in Italia e tra i più stimati a livello internazionale.

Ma chi è Tavaroli veramente? «Sono coniugato, ho cinque figli e dal maggio di quest’anno sono disoccupato. Anzi: “inoccupato”. Sono una persona normalissima, la domenica con la mia famiglia andiamo a messa e mia moglie in questo periodo preferirebbe vedermi fuori dalle scatole perché in casa sono un peso». Tavaroli, lei ha paura? «No, non temo nulla per me, ma non di meno ci possono essere problemi che mettono a rischio l’incolumità della mia famiglia. Nella mia vita di oscuro non c’è nulla. In azienda avevo sposato la trasparenza. Ma quale uomo dei misteri! Sono amico di Mancini, lui è entrato nel Sismi nel 1984 e ha fatto la sua carriera, non certo con il mio aiuto o di Tronchetti Provera, ma non per questo si può dire che allora c’entro col sequestro di Abu Omar. Mi telefona il maresciallo Pironi («Ludwig», il sottufficiale dei Ros che ha partecipato al sequestro, ndr) e allora divento il grande vecchio delle operazioni della Cia...». Per la verità il maresciallo Pironi dice che è stato lei a telefonargli dopo il sequestro di Abu Omar. «Pironi ha cattiva memoria. Io non lo vedevo da dieci anni, un amico mi ha detto che voleva parlarmi e gli ho detto di farmi telefonare».

Politici, calciatori, artisti

C’è da dire che Tavaroli conosce anche Cipriani, l’uomo che teneva in archivio qualche migliaio di files su personaggi di ogni tipo: politici, calciatori, uomini di spettacolo... «E quindi?». Quindi a un certo punto la Procura di Milano vi indaga per associazione per delinquere per l’acquisizione d’informazioni riservate e sostiene che avendo ottenuto Cipriani commesse da Telecom per svolgere investigazioni private pari a 11 o 14 milioni di euro (versati all’estero), ed essendo lei, all’epoca dei fatti, capo della sicurezza Telecom nonché amico fraterno dello 007 privato, il sospetto è che quei files siano stati raccolti illegalmente anche con il suo aiuto, anzi, forse su suo ordine. «Sì, certo: una volta ordinavo di rapire Abu Omar, un’altra di spiare mezza Italia, l’altra ancora tramavo col Sismi, poi garantivo la sicurezza in Telecom... Da notare che ci ho lavorato solo due anni, eh? Dove l’avrei avuto il tempo di combinare tutti questi disastri?». Un demonio, appunto. «Comunque vorrei saperlo anch’io perché Cipriani teneva quei files, ma magari è una cosa legittima. Cipriani aveva una sua agenzia d’investigazioni, quei files saranno stati il suo archivio. Non ero io a chiedergli i lavori, ma l’azienda». Legittimo fare dossier su mezza Italia che conta? «Può darsi ci siano lì dentro anche indagini commissionate da altri. La sua società, la Polis d’Istinto, lavorava per Telecom da prima che ci entrassi io, e lavorava anche per la Coca Cola, se per questo. Ma io cosa c’entro? È perché lo conosco? Ma se per questo conosco anche il dottor Spataro e il dottor Grigo e mezza Procura di Milano, e carabinieri, e polizia, e Guardia di finanza e gente di Sismi, Sisde, ministero dell’Interno... Ma che significa? Era il mio lavoro».

Staff di 560 specialisti

Certo avere avuto rapporti con i servizi segreti di mezzo mondo, non fa esattamente di lei una persona «normalissima»... «Non sono una spia, e tanto meno della Cia. Sono una persona normale, un manager d’azienda che lavorava 14 ore al giorno. Avevo alle mie dipendenze 560 persone, i migliori professionisti al mondo nel campo della sicurezza. Solo nel 2005 avevamo un budget di 150-160 milioni di euro. La sicurezza di un’azienda come Telecom, che ha sedi in 50 Paesi del mondo, non è uno scherzo e noi l’abbiamo portata a livelli altissimi. Sicurezza vuol dire tante cose, non solo telefonate: quando si fa un bancomat, quando si usa una carta di credito, quando ci si connette a Internet. Dietro c’è sempre Telecom e la sua rete di comunicazione». Siamo tutti «logati», come dice lei? «Si, tutti. E mi fa arrabbiare che l’azienda non abbia difeso il lavoro di tutte queste persone, mi fa arrabbiare che tutto venga ridotto a un mercato di compravendita di tabulati». Perché Telecom non ha preso le sue difese? «Provate a chiederlo a Telecom». Tronchetti Provera tace..: «Tronchetti Provera è una persona onesta e perbene, ma forse in questo momento non ha molto coraggio».

Di sicuro qualcuno, nonostante questa super sicurezza, i tabulati li faceva uscire: vedi la vicenda Laziogate, con gli investigatori che si facevano rintracciare il traffico telefonico delle persone che volevano spiare. «Ma quelli erano degli straccioni che compravano tabulati da alcuni sfigati dei call center. Purtroppo è una cosa che accadeva periodicamente e periodicamente licenziavamo i dipendenti infedeli».

Nome in codice, Tavola

Torniamo a lei, Tavaroli. «La mia storia è iniziata nel 1988 da professionista della sicurezza. Sicuramente sono molto invidato, soprattutto in un ambiente dove di solito si parte da colonnelli o generali. Io invece ero un brigadiere, nome in codice “Tavola”. Ho smesso di lavorare in Telecom il 5 maggio del 2005 quando sono stato svegliato dai carabinieri che mi hanno consegnato una richiesta di proroga dell’indagine del pm Napoleone e un contestuale decreto di perquisizione. Non sono mai stato interrogato. Da quel momento ho preso un’aspettativa di tre mesi. Nel luglio scorso poi mi hanno proposto di lasciare la sicurezza Telecom e di occuparmi di pneumatici in Romania. Poco dopo c’è l’attentato di Londra, così Telecom mi richiama perchè coordini, con un contratto di consulenza, un progetto di survival ability, ovvero per farmi verificare se in caso di attentato Telecom abbia requisiti di sopravvivenze nella sua rete di comunicazioni. A gennaio ho consegnato il progetto e sono tornato in Romania, fino a maggio scorso, quando sotto i colpi della libera stampa ho deciso di dare le dimissioni». Motivo? «Mi hanno accusato di tutte le nefandezze dell’orbe terracqueo».

Perché lei finisce sotto inchiesta? «Tutto nasce da un’indagine sull’Ivri, un istituto di vigilanza privata. Durante una telefonata intercettata tra un certo Pasquale di Gangi, titolare della Sipro (un altro istituto di vigilanza privata) e un suo interlocutore, viene fuori il mio nome, indicato come quello che poteva avvisarli di indagini in corso». È quello che si pensa. «Falso». Perchè? «Perchè controllare le intercettazioni delle Procure a me era praticamente impossibile».

Prove di Grande Fratello

Non era lei il capo del Cnag, centro nazionale autorità giudiziaria? «No, io ero il direttore della sicurezza in Telecom e il Cnag era una delle tante strutture che dipendevano da me. Avrò visitato la struttura del Cnag due volte. Era stata fondata da Alessandra Cerreta e quando lei è entrata in maternità abbiamo preso come responsabile il dottor Galletta, direttamente dalla Procura, il vicecomandante della polizia giudiziaria. Infine il Cnag riceve semplicemente le richieste dalle Procure, le inserisce in un sistema amministrativo e poi le trasferisce allo Stag (servizi tecnici autorità giudiziaria), che non dipende dalla security, ed eroga il servizio richiesto deviando le linee da intercettare direttamente alla Procura, nei cui locali è finalmente possibile ascoltare e registrare le telefonate che interessano». E in tutti questi passaggi, lei sostiene che nessuno possa inserirsi, sapere, informare? «Un’intercettazione illegale dentro Telecom è impossibile. In più, dopo 6 mesi, quel traffico telefonico non è più disponibile per nessuno tranne che per l’autorità giudiziaria».

E questi sistemi scoperti dall’auditing interno per entrare nella rete dei tabulati senza lasciare traccia, anche di questo lei non sa niente? «Non conosco i fatti. Ma posso dire che tutto ciò che avviene nell’azienda è logato, lascia cioè una traccia. È vero che è possibile estrarre il traffico telefonico, ma solo questo, nient’altro». Non pare poco. Adamo Bove, il suo omologo in Tim suicidatosi settimana scorsa da un ponte della tangenziale di Napoli, pare avesse accesso a uno di questi sistemi di assoluta segretezza. «Se Bove o chi per lui, ne aveva accesso, è perché era stato autorizzato. Non se l’era certo inventato lui il “sistema”». E lei Tavaroli, cosa ne sapeva? «Niente, non c’ero già più in azienda. Io non ho mai avuto accesso a nessun sistema di Telecom, non ho mai avuto nemmeno una password, io ero un direttore. Erano i responsabili più operativi che potevano intervenire. Ma poi, si può sapere quali indagini sarebbero state violate?» Come Marzullo: si è fatto una domanda, ora si dia una risposta. «Giuro, non lo so».

Che rapporti aveva con Adamo Bove? «Lo consideravo un amico, una persona straordinariamente onesta, capace, dedita all’azienda e al Paese. Integra e integerrima e su questo non ci sono dubbi. Ancora non mi spiego quello che ha fatto, se c’era una persona solida era lui. L’ho visto l’ultima volta a gennaio. Poi, nel momento in cui ho cessato il mio rapporto con Telecom, per ragioni di opportunità abbiamo smesso di sentirci». Si dice, Tavaroli, che lei abbia ancora potere in Telecom. «Dicano come, in che modo, quando. I “si dice” non sono prove. Tirino fuori nomi e cognomi, poi ci penseranno i miei avvocati».

Il progetto Enigma

È mai esistito il progetto «SuperAmanda», cioè una centrale unica d’intercettazione per tutte le Procure? «No, è una bufala. Il progetto si chiamava Enigma ed era nato per ridurre i costi delle intercettazioni, ma poi abortì. Lo aveva voluto il ministero di Grazia e Giustizia, spaventato dai costi delle intercettazioni, si era immaginato una rete che collegasse tutte le Procure, il problema che sarebbe stato gestito da un’unica intelligenza... Non se ne fece più nulla». Tavaroli, è vero che lei e Cipriani avete anticipato Calciopoli svolgendo un’indagine su De Santis? «Mai fatto indagini. Andrebbe chiesto a Cipriani. Comunque io sono un tifoso del Toro: e ho detto tutto». Niente da fare: Tavaroli gioca in difesa. È un suo diritto. Ma come si spiega allora che il suo nome compare ogni volta che c’è un’inchiesta delicata? Gli occhi del «diavolo» tornano a fiammeggiare: «Non so più come dirlo: non custodisco nessun segreto e non ho nessun “nodoso randello da agitare”. E non sono nemmeno uno dei prossimi che si suiciderà, come auspicato da qualcuno. Ho la coscienza tranquilla».




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IL MANIFESTO
1 agosto
Abu Omar, Brescia indaga su Spataro. E chiama Cossiga
Sa. M.
Roma

Atto dovuto. Come quasi sempre capita quando le indagini della procura di Milano toccano nervi scoperti, la procura di Brescia ha aperto un fascicolo sull'inchiesta dei dirimpettai dedicata al rapimento dell'imam egiziano Abu Omar da parte di agenti Cia aiutati dal Sismi.
Il procuratore Giancarlo Tarquini ha convocato per il pomeriggio del 4 agosto il presidente emerito Francesco Cossiga. L'oggetto dell'audizione sarà l'esposto che il presidente ha presentato l'11 luglio scorso, per poi ritirarlo a metà della scorsa settimana. Ad annunciare l'appuntamento è stato lo stesso senatore a vita, convintissimo di avere in tasca la ragione: «Voglio che venga accertato se i pm milanesi hanno abusato dei loro poteri. Le attività degli agenti del Sismi, i loro documenti, le loro identità sono sottoposte per legge a segreto di stato. I pm milanesi intercettandoli e rivelando i loro nomi hanno abusato dei loro poteri mettendo in pericolo la sicurezza dello stato e i rapporti con le altre intelligence». Le rivelazioni della stampa, dice il senatore, e «in particolare di un settimanale» (l'Espresso ndr) «hanno costretto l'intelligence a ritirare gli agenti in missione all'estero».
L'esposto del presidente parla di reati polverosi come gli «atti volti a turbare le relazioni con uno stato estero». E la procura di Brescia, tanto per far capire quanto il profilo sarà basso, non ha voluto confermare neppure la convocazione di Cossiga. In realtà la definizione di «segreto di stato» contenuta nella legge sui servizi del 1977, è talmente ampia da far pensare che almeno in parte - ma comunque non su tutto ciò che riguarda il sequestro dell'imam Abu Omar - il sigillo sia stato violato. Per l'articolo 12 sono sottoposti a segreto «gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico». E infatti prima che l'inchiesta milanese scoppiasse l'agente Marco Mancini aveva spedito un paio di querele ai giornali che avevano pubblicato le sue generalità complete. Qualche problema quindi potrebbe esserci per la trascrizione delle intercettazioni che toccano agenti del Sismi non sottoposti ad indagine, con tanto di nome e cognome, e di conversazioni relative a fatti che non hanno a che fare con il tema dell'inchiesta.
Intanto, con una scelta contestata da avvocati e organi di stampa, la procura di Milano ha sostanzialmente deciso di chiudere l'indagine sul sequestro dell'imam Abu Omar. La pubblicazione dell'interrogatorio del generale Gustavo Pignero nei giorni scorsi aveva fatto pensare che la ricerca si sarebbe allargata alle altre richieste di rendition contenute nella fantomatica lista che il generale avrebbe ricevuto dalla Cia per poi distruggerla un anno fa. Nell'interrogatorio dell'11 luglio che egli stesso ha smantellato alcuni giorni dopo, Pignero parla di «una persona a Vercelli, uno a Torino, uno a Napoli e questo di Milano». Per il momento però solo la procura di Napoli ha aperto un fascicolo. A Vercelli e Torino gli immigrati, che Digos e carabinieri conoscevano e seguivano come «presunti» terroristi, o sono ancora al loro posto o sono stati rimpatriati grazie alla legge antiterrorismo che permette al Viminale di agire senza troppe spiegazioni, come è capitato all'imam Bouiriqi Bouchta il 6 settembre 2005. Se poi Pisanu abbia agito su informazioni «di intelligence» arrivate dalla Cia, è tutt'altro paio di maniche.




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