Marok Forum ufficiale di Gianni Maroccolo

Io Leggo e ..

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    -Elisa-
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    00 12/12/2006 17:30
    " Gli Indifferenti "

    “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

    L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

    Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

    Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

    Antonio Gramsci
    11 febbraio 1917

    ---- . -----

    Posto come prefazione di un libro che vi consiglio, "Oltretorrente" di Pino Cacucci ["un popolo, quando sapeva essere popolo" cit.], mi ha colpito questo testo che ho ritrovato tra gli scritti di Gramsci.
    Al di la' dei pensieri e delle emozioni che questo cognome puo' far nascere in ognuno, trovo sia un testo quanto mai attuale.
    Piu' ci rifletto sopra, piu' sento fortemente che l'indifferenza, che Saramago in una conferenza a Pontedera chiamo' "mancanza di spirito critico" sia un male tremendo, che nella NOSTRA attuale societa' (questi 15/20 anni?) prende sempre piu' e con conseguenze sempre piu' nefaste i giovani (e poco piu' che giovani) di oggi.

    Mi ha molto colpito questo testo perchè combacia e scatena le mie paure, quando penso alla nostra societa'. Volevo condividerlo.

    E.

    [Modificato da -Elisa- 12/12/2006 17.32]



    ----------------------------------------
    "Mille anni al mondo,
    mille ancora.
    Che bell'inganno sei, anima mia [..]
    sono giorni di finestre adornate
    canti di stagione,
    anime salve in terra e in mare.
    Sono state giornate furibonde
    senza atti d'amore
    senza calma di vento
    solo passaggi e passaggi...
    passaggi di Tempo"
    F. De Andrè

    ----------------------------------------
  • CorContritumQuasiCinis
    00 20/12/2006 15:59
    e ...

    Sul palco c’è il silenzio ch’è vestito di nero
    Sul palco c’è una troia con i suoi occhi astratti
    Sul palco c’è il vento che m’invade il pensiero
    Sul palco c’è la paura che si muove a scatti
    Sul palco c’è la voce che mi viene dalle onde
    Ed il palco è il tuo ventre dove muoio ogni sera
    Sul palco c’è il tuo stile che si muove e confonde
    Sul palco c’è l’amore fatto alla mia maniera.

    Sul palco c’è il tuo slip che si accende al mio fuoco
    Sul palco c’è il mio stipendio già speso il ventotto.
    Sul palco ci son vele che si gonfian per gioco
    Sul palco le canzoni hanno il fiato ben corto
    Sul palco c’è il pavé che ricopre la spiaggia
    Sul palco c’è il falso che si prende per vero
    Sul palco c’è la luna in sciopero selvaggio
    Sul palco c’è un tipo che si trucca davvero.

    Sul palco c’è Bene che ti recita il male
    Sopra il palco Molière fa il malato e poi muore
    Sul palco c’è Karl Marx che spiega il capitale
    A Wall Street, alla borsa, a chi ha l’oro nel cuore
    Sul palco c’è Sole che d’estate s’impicca
    Sul palco l’autunno ci conquista ogni sera
    Sul palco c’è l’inverno che ci gela e in ripicca
    Sul palco c’è il Chiapas che aspetta la primavera.

    Sul palco c’è la speranza che trascina la vita
    Sul palco c’è la tristezza che ti urta sui denti
    Sul palco c’è un toro che non ha via d’uscita
    Alla corrida folle dell’incrocio dei venti
    Sul palco c’è il mio cuore che mi batte compagno
    La mia donna che dietro le quinte sorride
    Sul palco il successo lo si merita pugni
    Sul palco c’è Michael Jackson che mi guarda e poi ride.

    Sul palco c’è la mia gioia rivestita di note
    Sul palco c’è il mio lavoro quello vero, il migliore
    Sul palco c’è Milano, senza pula, pulita
    Sul palco c’è il mio gatto che strilla il suo calore
    Sul palco c’è l’ombra che nasconde quel viso
    Sul palco c’è un amico che m’inietta del vetro
    Sul palco c’è l’applauso e tutto batte diviso
    Giù dal palco la gente...e quello è il vero teatro.

    Sur la scène di Léo Ferré
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    BENDETTA
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    00 21/12/2006 00:59
    ...associo
    Il nodo è mortale.
    E' laccio, la rete, la trappola, il cappio
    - è labirinto (inextricabilis error, Eneide VI),
    l'enigmistica con la vita o la morte in palio.
    Lo scampo sta nell'andare tornando - la spada impugnata, e il filo dipanato da una mano di donna.


    B.

    ...sfuggo per un attimo al mondo della divisione ed entro nel mondo dell'unità,
    dove una cosa, una creatura dice all'altra
    "questo sei tu".



    " Soltanto chi non ha bisogno nè di comandare nè di
    ubbidire è davvero grande ".

    J.W.Goethe
  • CorContritumQuasiCinis
    00 24/01/2007 09:14
    Una "lettera" di Antonin Artaud

    AL PAPA

    In nome della Patria, in nome della Famiglia, tu (Papa), tu induci alla vendita delle anime, alla libera triturazione dei corpi.

    Abbiamo, tra noi e la nostra anima, abbastanza percorsi da superare, abbastanza distanze per interporvi anche i tuoi preti tentennanti e questo ammasso di azzardate dottrine di cui si nutrono i castrati del liberalismo mondiale.

    Il tuo Dio cattolico e cristiano:

    1) te lo sei messo in tasca

    2) Non sappiamo che farcene dei tuoi canoni, del tuo indice, del peccato, del confessionale, della tua pretaglia;

    noi pensiamo ad un'altra guerra, la guerra contro di te, Papa, cane.

    Qui lo spirito si confessa allo Spirito.

    Dall'alto in basso della tua pagliacciata romana, quello che trionfa è l'odio per le verità immediate dell'anima, di quelle fiamme che ardono direttamente lo spirito.

    Non c'è Dio, Bibbia o Vangelo, non ci sono parole che fermino lo spirito.

    Non siamo al mondo. O Papa confinato nel mondo, né la terra, né Dio si esprimono in te.

    Il mondo è l'abisso dell'anima, Papa deformato, Papa esteriore all'anima, lasciaci nuotare nei corpi, lascia le nostre anime alle nostre anime, non abbiamo bisogno della tua lama di abbagli.

    1) Rinnego il battesimo.

    2) Cago sul nome cristiano.

    3) Mi dondolo sulla croce di Dio (ma trastullarmi dondolando, Pio XII, non è mai stata mia abitudine. Dovrebbe iniziare a comprendermi).

    4) Sono io (non Gesù Cristo) a esser stato crocifisso sul Golgota, e lo sono stato per il solo fatto di essermi ribellato contro dio e il suo cristo, perché io sono un uomo e dio e il suo cristo non sono che idee che recano lo sporco contrassegno della mano dell'uomo; e queste idee per me non sono mai esistite.

    Vi scrivo perché sappiate chi sono e che è un dato conosciuto da tutte le polizie del mondo che Antonin Artaud è un soggetto tabù, il problema rimosso, il segreto occultato che per tutti non fu, d'altronde, che un enorme e irrisorio segreto di pulcinella; e che solo, io, Antonin Artaud, sono stato costretto pubblicamente a ignorare sotto pena di camicie di forza, prigioni, veleni, elettrochoc, strangolamenti, sfregi, stordimenti e assassinii. Questa la mia vita, Pio XII, di nove anni.

    (...) Questo segreto è che lo spirito, il cervello, la coscienza e anche e soprattutto il corpo di Artaud sono paralizzati, rinchiusi, ammanettati con mezzi di cui l'elettrochoc è un'applicazione meccanica e l'acido o il cianuro di potassio o l'insulina una trasposizione quasi botanica o fisiologica.

    (...) Sono stato arrestato, imprigionato, internato, avvelenato dal settembre 1937 al maggio 1946 per le stesse ragioni per le quali sono stato arrestato, flagellato, crocifisso e gettato in un letamaio a Gerusalemme poco più di duemila anni fa.

    Questa cifra di duemila anni rappresenta i 2000 anni di vita storica trascorsi dalla morte del crocifisso del Golgota, fino ad oggi. Storica, ossia ufficiale.

    Perché il tempo in quel giorno ha fatto fare alle cose un balzo terribile, e mi ricordo perfettamente, Pio XII, che uscito dal mucchio di letame in cui avevo soggiornato per tre giorni e mezzo nell'attesa di sentirmi morto per decidermi a levarmi, non tanto il ricordo del dolore, quanto il ricordo di essere stato pubblicamente denudato e flagellato dietro ordine espresso dei preti.

    (...)

    Sono io, io, Antonin Artaud, qui presente, ad aver sofferto il supplizio della croce sul Golgota e sono tutti gli anticristi del Padre Eterno che non ha mai voluto soffrire che hanno invocato "Lamà, Lamà" con il tono di Dio.

    Ed ero assolutamente solo con la pleiade di demoni e vampiri che senza provare alcuna sofferenza hanno sempre voluto prendere la coscienza del mio dolore quando questa coscienza è tutto il mio io.

    Ed è questo empio artificio dello stupro eterno di Dio che ha formato il mistero della Redenzione.

    E sono io stesso, qui presente, io che sono Gesù Cristo in corpo, anima, coscienza, cuore.


    ____________________________________________

    [Bisognerebbe leggere un po' la biografia di quest'uomo per comprendere al meglio questa "lettera"].

    A me provoca strani brividi.
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    BENDETTA
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    00 25/01/2007 11:56


    B.

    ...sfuggo per un attimo al mondo della divisione ed entro nel mondo dell'unità,
    dove una cosa, una creatura dice all'altra
    "questo sei tu".



    " Soltanto chi non ha bisogno nè di comandare nè di
    ubbidire è davvero grande ".

    J.W.Goethe
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    BENDETTA
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    00 25/01/2007 12:04
    Re: ...sghinazzo

    Scritto da: BENDETTA 25/01/2007 11.56



    Peter Hahne " La festa è finita" Basta con la società del divertimento con prefazione di Maurizio BELPIETRO.

    Il motto di Hahne: "Riportare Dio nella politica", un invito di scottante attualità con una forte carica dirompente.
    Il moderatore televisivo e autore di best seller Peter Hahne ritiene infatti che il dramma dell'attacco terroristico alle torri gemelle di New York abbia provocato un profondo solco nella storia del mondoe nello spirito del nostro tempo.
    Ma quali sono oggi i valori portanti che vale davvero la pena di difendere?
    P. H. ci offre un'appassionante analisi del contemporaneo e, al tempo stesso, ci incita al ritorno a quei valori immutabili che ci consentiranno di rinnovare la nostra società malata.
    Se non ricorriamo alle nostre origini non ci sarà un futuro.

    Peter Hahne (1952) dal 1990 moderatore della trasmissione "Berlin Direkt" e vice direttore degli studi televisivi della capitale tedesca.

    700.000 copie in Germania


    hihihihihihihih [SM=g27816]


    B.

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    J.W.Goethe
  • CorContritumQuasiCinis
    00 30/01/2007 19:10
    Libertà di parola
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    BENDETTA
    Post: 2.341
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    00 02/02/2007 00:32
    ...
    Ferretti Vasco: Le stragi naziste sotto la linea gotica : 1944: Sant'Anna di Stazzema, Padule di Fucecchio, Marzabotto




    B.

    ...sfuggo per un attimo al mondo della divisione ed entro nel mondo dell'unità,
    dove una cosa, una creatura dice all'altra
    "questo sei tu".



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    J.W.Goethe
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    lemiemanisudite2.
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    00 15/02/2007 10:14
    ....


    ABORTO (22 gennaio 1975)
    Tratto da “Mammifero Italiano” di Giorgio Manganelli (Adelphi)

    Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio: non oserò dire che scrive male, tenuto conto anche della media nazionale, ma che scrive, all'incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori non indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare un esempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l'ultimo Pier Paolo Pasolini.

    Mi rendo conto di esser caduto in un errore di logica, ma di un genere così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo. Quello che si nota, in questi ultimi scritti, è una tale quantità di superiorità morale nei confronti dell'universo, da essere difficilmente compatibile con una prosa comprensibile. Era già successo al tempo del divorzio, succede di nuovo oggi sul tema dell'aborto. Il lettore ha l'impressione di tentare l'autostop durante gli ultimi tre giri sulla pista di Indianapolis: estremamente frustrante. Non sono assolutamente certo di aver capito tutto, ma quel che ho capito ha provocato in me una varietà di emozioni di cui cercherò di render conto, supponendole comuni ad altri mortali.

    Il problema dell'aborto, ovviamente, pone in primo luogo il tema della mamma: Pasolini afferma di vivere «nei sogni e nel comportamento quotidiano» la sua vita prenatale, quella che egli chiama «la mia felice immersione nelle acque materne». Sarà, ma la mia memoria amniotica è piuttosto corta; che allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere; in ogni caso, molti, ed io di questi, se invece di essere partoriti fossero stati abortiti, non se ne sarebbero avuti a male. Con lieve correzione dell'apotropaico detto popolare, «di mamma ce n'è una sola», dal contesto di Pasolini si può trarre lo slogan programmatico, «di mamme ce n'è un miliardo solo». Troppe, a mio modo di vedere.
    A questo punto, uno crede di aver acchiappato un bandolo e gli corre dietro: facciamo la conta delle mamme, facciamo delle proposte, tutto potrebbe rientrare nella difesa del paesaggio.

    Ci arriveremo, all'ecologia, ma più tardi; intanto ci sono delle riflessioni erratiche e concitate. I radicali hanno ceduto al fascino cinico della realpolitik; la maggioranza ha sempre torto, i «principi reali» – non so cosa siano, potrebbe essere un bon mot antimonarchico – non coincidono con i diritti della maggioranza. Ottimamente: se le cose stanno così, siamo perfettamente d'accordo. La maggioranza è conformista, dunque «brutalmente repressiva»: c'è perfino l'ombra di un sillogismo. Niente da dire.

    Ora qualcuno potrebbe mettersi in testa che costringere una donna, che già deve varcare la soglia infera del trauma dell'aborto, a comportarsi come un animale braccato, a rischiare la vita, e infine ad essere dichiarata «delinquente» a nome del popolo italiano sia un comportamento abbastanza repressivo. Macché: come saviamente argomenta il Pasolini, la «maggioranza» vuole l'aborto, perché la coppia eterosessuale ha scoperto il coito consumistico, lo vive come dovere sociale della propria figura di consumatore. È del tutto evidente che Pasolini considera l'aborto come una attività psicologicamente distensiva, una faccenda da carosello.

    Essendo stati esentati dall'arbitrio della natura da codeste scelte, una tal quale prudenza non sarebbe di troppo. Diciamo, di indiretta scienza, che l'aborto non ha mai fatto ridere nessuno; alcuni anni fa, mi accadde di assistere ad un suicidio nell'Aniene di una domestica: incinta; quando ero insegnante, una mia allieva si gettò da un quarto piano: incinta; chissà quale illusione le aveva persuase di essere oggetto di una «brutale repressione»; forse una cultura che tratta da «puttana» la ragazza madre, che le porta via i figli per infilarli in quelle case di riposo per angeli che sono i nostri brefotrofi, che garantisce una vita di disprezzo, di frustrazione, di irrisione, non ha tutte le carte in regola per discutere della sacra vita.

    Ma stiamo sul terra terra: tutta questa campagna contro l'aborto è nata, se non sbaglio, da una iniziativa dell'onorevole Pisanò, MSI: a me basta così, non occorre altro; ma se vogliamo c'è dell'altro; tutto comincia a Firenze, negli uffici di quella procura che aveva dichiarato non punibile il massacro di un anarchico figlio di N.N., un tale la cui madre non aveva avuto la saggezza di abortire, ma aveva pensato che «la vita è sacra».

    Sembrerebbe chiaro, no? Macché: con uno di quei glissando logici che a me danno il capogiro, Pasolini, mentre saccheggia mamme e maggioranze per contrastare l'aborto, definisce codesta opposizione «vecchia convenzione clerico fascista»: e se la prende con Fanfani che farebbe non so che giochi - tanto lui li fa sempre — «in barba al Vaticano».


    Si ha l'impressione che di Pasolini ce ne siano troppi, e da tutte le parti. A questo punto, Pasolini scopre il « coito politico»: pensando e ripensando, di «coiti politici» ne ho trovati sicuramente due; quello con le prostitute, e quello con la propria moglie in quanto moglie, non in quanto la propria donna, «lei»; questi due coiti sono le colonne della nostra società. Tecnicamente, oserei affermare che sono gli unici coiti esistenti; tutti gli altri, senza distinzione di fecondi o infecondi, rientrano nell'assai più vasta e tragica categoria dei rapporti umani, quei rapporti che sono sempre frammentari, isolati, «repressi» dai fruitori dei coiti, condannati sempre a passare per misteriosi contatti e lacunosi dialoghi e impervi silenzi. Oggi il coito è «diverso», scrive Pasolini, perché «il contesto politico di oggi è quello della tolleranza.

    Questo si chiama massificare, altro che romanzi, neanche la statistica riesce ad essere così vilipendiosamente elementare. Ma i giochi non sono finiti: Pasolini recupera una proposta di compromesso, suggerendo di includere l'aborto nel reato di eutanasia, «privilegiandolo di una serie di attenuanti di carattere ecologico»; infatti, il reato di aborto potrebbe essere visto come un compenso al reato – «piccolo patto criminale» – consumato dalla coppia che, unendosi, rischia di produrre altri bambini che, inevitabilmente, contribuirebbero alla fine dell'umanità per pletora planetaria. Questo non è un glissando, è uno slalom. A questo punto, viene una gran nostalgia di Voltaire, di Swift, di Bertrand Russell, magari della logica di Aristotele, aio e pedante.

    Vorrei concludere questa giostra logica con due annotazioni. Suppongo che per Pasolini l'esito del referendum sul divorzio sia una prova che la maggioranza sia – non m'importa ora quello che Pasolini pensa che sia; mi chiedo come era fatta quella maggioranza: come mai la maggioranza «silenziosa» ha votato «no»? Un'ipotesi che una parte di questa maggioranza abbia avuto vergogna dei suoi compagni «clerico fascisti» e anche della propaganda per l'abrogazione; così una minoranza staccò una parte della maggioranza dal resto schiettamente fascista, il vero cuore della maggioranza silenziosa. Prova ne sia che oggi l'Italia, dopo aver votato «no», continua a vivere il mondo del «Sì». Infine, a furia di dribbling, ho l'impressione che Pasolini abbia ingannato se stesso: intervento «minoritario», il suo? Non direi.




    __________________________________________________
    Una domanda per Obama. Ci invadete spontaneamente o dobbiamo proprio rifarlo tutto, il fascismo?

    *********************
    La palla che lanciai giocando nel parco non è ancora scesa al suolo.
  • CorContritumQuasiCinis
    00 15/02/2007 12:47
    Anche io leggevo e ...
    19/01/1975 - Il Corriere della Sera

    Sono contro l'aborto
    di Pier Paolo Pasolini

    Io sono per gli otto referendum del Partito radicale, e sarei disposto a una campagna anche immediata in loro favore.


    Condivido col Partito radicale l'ansia della ratificazione, l'ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia.


    Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano - cosa comune a tutti gli uomini - io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell'aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.


    La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell'aborto, è il primo, e l'unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi, si appellano alla "Realpolitik" e quindi ricorrono alla prevaricazione "cinica" dei dati di fatto e del buon senso.


    Se essi si sono posti sempre, anzitutto, e magari idealmente (com'è giusto), il problema di quali siano i "principi reali" da difendere, questa volta non l'hanno fatto. Ora, come essi sanno bene, non c'è un solo caso in cui i "principi reali" coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. Nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l'intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per la propria natura, brutalmente repressivo.


    Perché io considero non "reali" i principi su cui i radicali e in genere i progressisti (conformisticamente) fondano la loro lotta per la legalizzazione dell'aborto?


    Per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell'aborto (anche se magari nel caso di un nuovo "referendum" molti voterebbero contro, e la "vittoria" radicale sarebbe molto meno clamorosa).


    L'aborto legalizzato è infatti - su questo non c'è dubbio - una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito - l'accoppiamento eterosessuale - a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della "coppia" così com'è concepita dalla maggioranza - questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi - da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.


    Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti, primo: risultato di una libertà sessuale "regalata" dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l'ossessione; perché è una facilità "indotta" e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l'esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito dunque col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com'era nelle speranze democratiche).

    Secondo: tutto ciò che sessualmente è "diverso" è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). E' vero; a parole, il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludersi che, prima o poi, alla televisione se ne parli pubblicamente. Del resto le "élites" sono molto più tolleranti verso le minoranze sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze). In compenso l'enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è ceto mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni, antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua "reale" tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato l'intera sua storia.

    Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. E' questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell'aborto e quindi l'abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata.


    Ora, tutti, dai radicali a Fanfani (che stavolta, precedendo abilmente Andreotti, sta gettando le basi di una sia pur prudentissima abiura teologica, in barba al Vaticano), tutti, dico, quando parlano dell'aborto, omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, cioè il coito...

    ______________________________________________________________
    *I corsivi sono miei.



    Per inciso:

    Pasolini NON si schierò MAI contro chi lottava a favore di una legge che depenalizzasse l'aborto.

    Bisogna ricordare che Pasolini erra assolutamente favorevole alla legge sull'aborto, e anzi la sua obiezione cominciava da lì: ci deve essere una depenalizzazione dell'aborto. Dopo di che, diceva, in questo caso sono più con il PCI che non con i Radicali, con cui viceversa si dichiarava d'accordo in altre circostanze, perché condurre in modo trionfalistico una battaglia per l'aborto era pazzia.
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    lemiemanisudite2.
    Post: 1.735
    Registrato il: 12/06/2006
    Utente Veteran
    00 15/02/2007 13:58
    Re: Anche io leggevo e ...

    Scritto da: CorContritumQuasiCinis 15/02/2007 12.47
    19/01/1975 - Il Corriere della Sera


    Pasolini NON si schierò MAI contro chi lottava a favore di una legge che depenalizzasse l'aborto.

    Bisogna ricordare che Pasolini erra assolutamente favorevole alla legge sull'aborto, e anzi la sua obiezione cominciava da lì: ci deve essere una depenalizzazione dell'aborto. Dopo di che, diceva, in questo caso sono più con il PCI che non con i Radicali, con cui viceversa si dichiarava d'accordo in altre circostanze, perché condurre in modo trionfalistico una battaglia per l'aborto era pazzia.



    Credo che ti stia sbagliando.
    Questa è Dacia Maraini....

    ".......Il fatto di generalizzare, il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo ha poi portato, per esempio, a prendere una posizione così negativa nei riguardi dell’aborto. Sul "Corriere" ha scritto, e gliel’ho fatto notare, un lungo articolo contro l’aborto senza mai riflettere un momento che è la donna a subire l’aborto: lui ha visto tutto dal punto di vista di questo bambino ancora non nato, potenziale uomo, naturalmente maschio. Dunque ha sùbito colto il rapporto madre-figlio e l’aborto gli ha ripugnato profondamente perché ha visto una negazione di se stesso come figlio e una violenza da parte della madre. Senza pensare che invece la violenza prima è quella subita dalla donna. Questo non gli veniva neanche in mente, infatti quando a un certo punto gli ho detto: ma scusa, tu hai scritto un lungo articolo in cui sembra che la donna non esista, che l’aborto venga fatto non si sa da chi, che sia un atto meccanico, lui ha ribattuto: sì, forse è vero, non ci ho pensato, ho pensato soltanto alle ragioni del figlio immaginario, di questo figlio che deve ancora nascere. E questo è abbastanza indicativo: Pasolini vedeva un mondo con uomini reali e donne irreali. Così in certi momenti intuiva le donne come immagini della madre, in altri momenti le vedeva attraverso gli occhi dei ragazzi che amava, in altri momenti ancora le concepiva come figure poetiche e molto astratte. Non riusciva mai a vederle nella loro realtà, in maniera problematica".




    __________________________________________________
    Una domanda per Obama. Ci invadete spontaneamente o dobbiamo proprio rifarlo tutto, il fascismo?

    *********************
    La palla che lanciai giocando nel parco non è ancora scesa al suolo.
  • CorContritumQuasiCinis
    00 15/02/2007 17:35
    Re: Re: Anche io leggevo e ...

    Scritto da: lemiemanisudite2. 15/02/2007 13.58


    Credo che ti stia sbagliando.




    Può darsi si sia sbagliato Adriano Sofri.
    L'ultimo corsivo era suo (ho dimenticato di citare la fonte):

    Bisogna ricordare che Pasolini era assolutamente favorevole alla legge sull'aborto, e anzi la sua obiezione cominciava da lì: ci deve essere una depenalizzazione dell'aborto. Dopo di che, diceva, in questo caso sono più con il PCI che non con i Radicali, con cui viceversa si dichiarava d'accordo in altre circostanze, perché condurre in modo trionfalistico una battaglia per l'aborto era pazzia. .
    (Micromega, 6/05 - Pasolini, l'uomo che capiva troppo - B.Bertolucci/L.Ravera/A.Sofri/P.Bellocchio)

    Il discorso della Maraini non fa una piega.
    E' a conoscenza di tutti, credo, il (non)rapporto che Pasolini aveva con le donne. Un rapporto molto problematico.

    Il pezzo che hai estrapolato dall'intervista era, infatti, preceduto da questo:

    Il rapporto di Pasolini con le donne passa attraverso il rapporto di Pasolini con la madre, perché è l’unico rapporto in cui è andato a fondo. Pasolini aveva pochissimi rapporti con le donne, soprattutto non aveva mai avuto un rapporto sentimentale, che è sempre un modo di capire le persone: amare una persone vuol dire capirla. Ora, l’unica donna che lui ha amato è la madre. Quindi in un certo senso lui ha cercato di vedere il mondo attraverso gli occhi della madre e attraverso quello che per lui rappresentava questa madre. Infatti, quando aveva un certo sentimento di amicizia con una donna, spesso la vedeva come una madre: è successo nel caso della Laura Betti, è successo nel caso della Elsa Morante. E, anche se io ero più giovane di lui, c’era un po’ anche con me questo tipo di rapporto. Quindi, non amando le donne, non le conosceva, non le capiva, e anche era portato per una specie di vezzo sentimentale a vederle attraverso gli occhi dei suoi ragazzi. E spesso parlava delle donne, non tanto delle donne intelligenti che lui conosceva e che stimava, ma delle ragazze, come ne parlerebbe un ragazzo di borgata, cioè con grande familiarità ma anche con molto disprezzo, con disinteresse.

    Ma tutto ciò può rilevare solo al fine di una attenta disamina e comprensione della "vexata quaestio" sulla presa di posizione pasoliniana inerente l'aborto.

    Quello che vorrei, invece, far presente è che il punto di vista pasoliniano partiva da un modo di vedere prettamente soggettivo. Il contenuto del primo articolo in cui Pasolini prende posizione netta va letto anche, o soprattutto, alla luce degli articoli che seguirono a quello "famoso" in cui riesce a spiegare, analizzando minuziosamente, il suo punto di vista. Gli articoli che seguirono, purtroppo, non si trovano in rete. Ho havuto la fortuna di leggerli in una raccolta di scritti pasoliniani ... Dovreste leggerli. Lì, Pasolini, puntualizza la sua "teoria" per poter meglio farsi capire. Ma non cambia di una virgola ciò che pensava sull'argomento. E vi dirò, leggendoli ho avuto l'impressione di leggere, anche per quel che concerne il lessico, buona parte di ciò che scrive, nel condurre la sua battaglia sull'aborto, un Giuliano Ferrara (fatti tutti i dovuti distinguo, eh!)...

    In poche parole, quello che mi interessa e che vorrei si capisse è ciò che, con l'acume che gli è proprio, ha avuto modo di ribadire Adriano Sofri:
    Il punto della sua posizione sull'aborto non era la discussione sulla sua legalizzazione o meno (Pasolini era per una regolamentazione che depenalizzasse l'aborto), o sulla sua drammaticità, o sulla condizione delle donne, sulla quale riconobbe di essere manchevole, ma sulla critica della naturalezza del coito e poi della trasformazione consumistica del coito eterosessuale, di coppia, in una specie di obbligo che toglieva all'amore, al sesso, qualunque enigmaticità, misteriosità e così via.


    Poi se qualcuno mi domandasse se sono d'accordo con l'assunto pasoliniano secondo cui l'aborto è la legalizzazione dell'omicidio, risponderei a pie' pari: NO!

    _______________________________________________________

    Con questo si chiude qui, per me, il contributo che ho dato alla discussione.

    Ognuno in Cuor suo sa..., e siccome in cuor mio so, credo di sapere, preferisco leggere voi in merito a tutte le problematiche inerenti l'aborto.

    Tutto qui.
  • CorContritumQuasiCinis
    00 21/02/2007 17:09
    (Più) io leggo e ... più gli voglio un fottuto bene.

    La Chiesa, i peni e le vagine. *
    di Pier Paolo Pasolini


    La Chiesa non può che essere reazionaria; la Chiesa non può che essere dalla parte del Potere; la Chiesa non può che accettare le regole autoritarie e formali della convivenza; la Chiesa non può che approvare le società gerarchiche in cui la classe dominante garantisca l’ordine; la Chiesa non può che detestare ogni forma di pensiero anche timidamente libero; la Chiesa non può che essere contraria a qualsiasi innovazione anti-repressiva (ciò non significa che non possa accettare forme, programmate dall’alto, di tolleranza: praticata, in realtà, da secoli, a-ideologicamente, secondo i dettami di una «Carità» dissociata - ripeto, a-ideologicamente - dalla Fede); la Chiesa non può che agire completamente al di fuori dell’insegnamento del Vangelo; la Chiesa non può che prendere decisioni pratiche riferendosi solo formalmente al nome di Dio, e qualche volta magari dimenticandosi di farlo; la Chiesa non può che imporre verbalmente la Speranza, perché la sua esperienza dei fatti umani le impedisce di nutrire alcuna specie di speranza; la Chiesa non può (per venire a temi di attualità) che considerare eternamente valido e paradigmatico il suo concordato col fascismo. Tutto questo risulta chiaro da una ventina di sentenze «tipiche» della Sacra Rota, antologizzate dai 55 volumi delle Sacrae Romanae Rotae Decisiones, pubblicati presso la Libreria Poliglotta Vaticana dal 1912 al 1972.**
    Non c’era bisogno certo della lettura di questo florilegio per sapere le cose che ho qui sopra sommariamente elencato. Tuttavia le conferme concrete -in questo caso la «vivacità involontaria dei documenti - ridà forza a vecchie convizioni tendenti all’inerzia. Per quel che riguarda una lettura letteraria, queste «sentenze» hanno poi notevoli elementi oggettivi di interesse (come osserva il prefatore del volume, Giorgio Zampa). Esse alludono con la violenza dell’oggettività - ossia dei riferimento alla matrice comune a tutta una serie di situazioni romanzesche: Balzac («Emilio Raulier aveva deciso di associarsi a tale Giuseppe Zwingesteiln, ma non aveva il capitale a ciò necessario...», «Se papà Planchut mi desse la somma...»), Bernanos, o Piovene («Frida... rimase orfana di entrambi i genitori ancora bambina e fu mandata dal nonno, che le faceva da padre, ne1 collegio delle suore di N. N., ove rimase sin quando ebbe quindici anni...»), Sologub («Essendo molto ricca, non appena ebbe superata la pubertà, venne chiesta in sposa al nonno da molti, alcuni dei quali di vecchia e nobile famiglia...»), Puskin («A bocca aperta i contadini ammirarono da lontano la pompa notturna delle nozze celebrate nella cappella privata della tenuta, tra Maria e il sottotenente Michele verso la mezzanotte dell’8 giugno 19...»), Pirandello, Brancati e Sciascia (“Affascinata dall’avvenenza di Giovanni, giovane di ventotto anni, cattolicamente e piamente allevato, Renata, minore di lui di otto anni e allevata secondo princìpi e abitudini liberali, se ne invaghì...», «Quindi ella contrasse matrimonio per soddisfare la propria libidine, né poteva fare diversamente, giacché lui almeno dal punto di vista formale era cattolico e praticante»).
    Confesso che è da romanziere che ho letto questo libro, o forse anche da regista. La casistica è tale, da non potersi considerare cibo di tutti i giorni. Sono rimasto invece scandalizzato (in una lettura cosi professionale) da ciò che la Chiesa appare attraverso questo libro. Per la prima volta, essa si rivela anche formalmente del tutto staccata dall’insegnamento del Vangelo. Non dico una pagina, ma nemmeno una riga, una parola, in tutto il libro, ricorda, sia pure attraverso una citazione retorica o edificante, il Vangelo. Cristo vi è lettera morta. Viene nominato Dio, è vero: ma solo attraverso una formula (“avendo innanzi agli occhi soltanto Dio, invocato il nome di Cristo”), o poco più, ma sempre con inerte solennità liturgica, che non distingue per nulla queste «sentenze» da un testo sacerdotale faraonico o da un rotulo coranico. Il riferimento è semplicemente autoritario, e, appunto, nominale. Dio non entra mai all’interno dei ragionamenti che portano gli «Uditori» a annullare o a confermare un matrimonio, e quindi nel giudizio pronunciato a proposito dell’uomo e della donna che chiedono iI «divorzio» e della folla dei testimoni e dei parenti che riempiono la loro vita sociale e familiare. Ciò che i giudici hanno in mano è il codice; e va bene. Questo si può giustificare col fatto che il codice è specifico e specialistico. Ma, intanto, quel codice non è mai letto e applicato cristianamente: ciò che contano in esso sono le sue norme, e si tratta di norme puramente pratiche, che traducono in termini dal senso unico concetti irriducibili come, per esempio, «sacramento».
    La piattezza logica che ne consegue è degna dei peggiori tribunali borbonici (se si toglie ai fori meridionali la passione ribollente e l’amore per il diritto sia pure formale). Lo spaventoso grigiore ecciesiastico ben più tetramente privo di ogni sorta di «calore umano» che quello borbonico. Gli uomini, agli occhi dei giudici della Sacra Rota, appaiono completamente destituiti non solo di ogni inclinazione al bene, ma, quel che è peggio, di ogni vitalità nel compiere il male (o il non-bene). Come conosciuti da sempre nelle loro debolezze, essi non hanno più novità. Il loro disperato desiderio di ottenere dalla vita quel poco che possono, magari attraverso menzogne, ipocrisie, calcoli, riserve mentali ecc. (l’intero armamentario che, tutto sommato, rende gli uomini fratelli) agli occhi dei giudici della Sacra Rota non sembra materia né di meditazione né di commozione né di indignazione. I soli accenti di indignazione in tutte queste sentenze sono di carattere ideologico: hanno cioè come bersaglio la cultura laica e liberale, e, naturalmente, peggio ancora, la cultura socialista. Contro il fascismo vengono pronunciate parole di condanna: ma si tratta della condanna oggettiva che viene indifferentemente pronunciata contro tutte le debolezze umane e i peccati. Fascismo e debolezze umane fanno parte, indistintamente, di una realtà, fondata sui poteri istituiti, che è la sola che la Chiesa sembra riconoscere. Peraltro questi giudici non si lasciamo mai andare nemmeno a slanci di simpatia o approvazione. Gli unici casi, anche in questo senso, sono puramente formali. Vengono per esempio viste con simpatia e approvate le persone che, socialmente, sono considerate «cattoliche e osservanti». Su questo punto i giudici della Sacra Rota non conoscono ritegno: sono pronti a qualsiasi dissociazione e a qualsiasi contraddizione, rimuovendo ogni possibilità di casistica gesuitica (che pare il loro modello logico primo). Per esempio, una ragazza è impotente a causa di una contrazione vaginale di carattere isterico. Questo i giudici lo sanno: e ne tengono anche conto! Ma non si sognano nemmeno lontanamente di collegare tale mostruosa forma di isterismo con l’educazione rigidamente cattolica che era stata impartita a quella ragazza in un collegio di suore - e per cui essi avevano avuto parole di indiscusso elogio. D’altra parte in una causa di nullità di matrimonio dovuta alla impotenza, stavolta, del coniuge, essi non risparmiano a quel disgraziato nessuna delle più atroci condanne con cui si bolla, si emargina, si lincia un impotente, quando tale impotenza è dovuta a omosessualità. Essi sembrano semplicemente pronti a consegnarlo nelle mani di un boia che lo rinchiuda in un Lager, in attesa di eliminarlo in qualche forno crematorio o in quaiche camera a gas.
    Non si è comunque approfondito, da parte loro, se per caso anche lui avesse studiato in un collegio di preti (con conseguente repressione sessuale), non ci si è chiesto se per caso il suo tentativo di matrimonio avesse lo scopo di mendicare patenti di onorabilità o di normalità presso il vicinato, o fosse addirittura la ricerca annaspante di una situazione materna.
    Non ci si è nemmeno chiesto, d’altronde, se egli si fosse sposato per interesse, per miserabile calcolo (coprirsi le spalle facendosi mantenere, poveraccio): no. L’unica cosa che ha interessato i giudici è il puro e semplice dato della sua indegnità sociale: la maledizione che lo vuole fuori da quella realtà in cui debolezze umane, peccati e fascismo, trovano una possibilità oggettiva di esistere.
    Ma ciò che più colpisce (scandalizza) leggendo queste sacre sentenze, è la degenerazione della Carità. Ho detto come mai gli estensori di questi testi si riferiscono sinceramente, o almeno con una certa passione, a Dio e alle sue ragioni: Fede e Speranza vi hanno spazio solo in quanto fondamenti di regole: fondamenti a cui non si risale mai, deferendo alle autoritià - cioè san Tommaso o qualche luminare di diritto canonico a noi ignoto - la responsabilità normativa del fatto. Quanto al rapporto tra Fede e Speranza e i codici che ne sono nati (nella fattispecie, i codici che regolano gli annullamenti del matrimonio, e che definiscono quindi il matrimonio), i giudici non entrano mai nel merito. È vero che il piano puramente pratico su cui essi operano potrebbe consentire loro una giustificazione in proposito: ma, su tale piano pratico, se essi possono ignorare Fede e Speranza, non possono però ignorare la Carità.
    Ed ecco l’orrore. La Carità, che è il più alto dei sentimenti evangelici, e l’unico autonomo (si può dare Carità senza Fede e Speranza: ma senza Carità, Fede e Speranza possono essere anche mostruose), viene qui degradata a pura misura pragmatica, di un qualunquismo e di un cinismo addirittura scandalosi. La Carità pare nor servire a niente altro che a scoprire gli uomini nella loro più squailida e atroce nudità di creature: senza né perdonarli né capirli, dopo averli così crudelmente scoperti. Il pessimismo verso l’uomo terreno è troppo totale per consentire l’empito del perdono e della comprensione. Esso getta un’indistinta luce plumbea su tutto. E non vedo niente di meno religioso, anzi, di più ripugnante, di questo.


    * «Tempo», 1° marzo 1974

    ** (20 sentenze della Sacra Rota, a cura di Stelio Raiteri, prefazione di Giorgio Zampa, Giorgio Borletti Editore. 1974. )
  • CorContritumQuasiCinis
    00 10/03/2007 00:21
    ... e ... Reminiscenze. Un doveroso pericolo. In verità: (ritorno da ...)


    Citavo, abbracciandolo, e dicevo tempo fa. Ribadisco:


    Ecco,
    comincia nella mia Vita il Timore e il Fervore,
    le mie Tranquillità sono da poco,
    la Serenità sempre un rimando esterno,
    arriva e se ne va:
    IO incapace, LEI inadatta.
    D’improvviso, fuori tempo non fuori luogo,
    io li ho incontrati davvero,
    in viaggio loro, io appena iniziato incosciente il cammino.
    Premono con urgenza Conti Nuovi,
    di pudore sfrontato da arrossire,
    il luccicar degli occhi ad abbellire il Buio.


    E mi soffermavo a sublimare considerazioni simili:


    percepito t'ho visto venire t'ho sentito
    m'hai stordito di suono di colore d'odore
    tolta la parola di bocca cedono le mie ginocchia cedono tre dita
    pulsa una vena pulsa calda ferita (pulsa)

    lo so lo sapevo l'ho sempre saputo visto di rado
    frammenti sognanti ad occhi aperti Fuochi di bivacco sui monti deserti
    schermo trasparente schermo di fiamme schermo che non mente
    dormiveglia nei boschi tra colpi secchi e fruscii rauchi

    riflesso di bagliore in eccesso
    quanto reggo per quanto si è salvato in me sbagliando troppo
    colpo d'occhio ridotto incapace inadatto

    m'acceca il sole m'infuoca le ossa
    la mia pelle in tensione si screpola si spezza
    assenza pulsante che vibra incandescente.
    Porta spalancata sul vuoto.
    Niente.

    ...(omissis)...

    coinvolge Cielo e Terra e trabocca dal Cuore



    Variazione sul Tema:

    E' calorosa al tatto, ha l'occhio della mucca,
    il fiato dell'amante, regalità regnante,
    il Cuore sulla Bocca, morbidezza da Gatto...


    Ebbi Orgasmo da ritardata eiaculazione:

    ... solo per un'ora, che sia Per Sempre!


    Ora, in questo medioevo CardioCorporeo, molto più umilmente,
    in verità, in verità mi(vi) dico e accetto assunti della seguente portata
    :


    In alto il cielo.
    Quando la luna piena scavalca il monte il paesaggio ha un volto nuovo, illuminato d'antico.
    Quando la luna si fa nera la profondità dell'universo si svela.
    In basso sulla terra succedono colorando il mondo le stagioni.
    Dal timido verdeggiare lungo i torrenti e il punteggiare dei fiori dove si ritrae la neve allo sbocciare rigoglioso del maggio.
    Dal verde coprente dell'estate all'esplosione dei gialli rossi e amaranto in autunno.
    TYutte le gradazioni del grigio dall'azzurrino al plumbeo, i ruggine, i viola stemperati nei banchi della stagione del freddo.

    Terre battute dai venti infoiati dai monti
    ...
    E' un vizio senza senso il superfluo
    è un vizio senza senso la noia, sui monti.


    New entry in quanto a orgasmo et eiaculatio:

    La vita è dura, per tutti, amata e a rischio.
    Per altre vie sanno la buona novella.
    Il resto lo fanno uomini e donne nella loro saggezza, nella loro bellezza, in quell'attitudine benedetta da Dio che porta gli esseri umani a unirsi nel corpo.

    Unisce più la carne, l'alcova improvvisata in un fosso, sotto le frasche, di tutta la buona volontà di un intelletto sterile, una purezza triste.

    C'è sangue nuovo in giro e si vede, freme la carne, ne gode la parola. Ingrossano le pance delle donne a partorire, anche nel dolore, nella gioia.

    Tra il talamo e l'alcova ci passa una parola e apre all'infinito.


    E io aggiungo:


    Ah! Desiderio!
    __________________________________________________________

    TUTTO QUI
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    mant(r)a
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    Registrato il: 29/04/2004
    Utente Master
    00 10/03/2007 15:08
    ... e scopro che le ultime pagine di Tristano muore di Antonio Tabucchi sono praticamente uguali a delle cose che scrissi due-tre anni fa. nelle parole, nei concetti, nelle immagini, e si può parlare di stile anche in quello, un po'.


  • CorContritumQuasiCinis
    00 13/03/2007 19:17
    ... contento lui.






    Da Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) di Piergiorgio Odifreddi, Longanesi, 2007

    _______________________________________________

    Valli a capire certi matematici.

  • CorContritumQuasiCinis
    00 19/03/2007 22:28
    ... le novelle della mia adolescenza riaffiorano ...

    L'ho riletta su un blog, stasera. E dove mi riporta solo iddio lo sa...

    Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.

    Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

    Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

    Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.

    È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

    Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.


    Dino Buzzati - Inviti Superflui.
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    00 22/03/2007 10:14
    Molto belli i tuoi ultimi 2 interventi, Cor!

    Quel brano di Buzzati non l'avevo mai letto.
    Non so, ma lo sento molto vicino al mio sentire. [SM=g27821]
    Muove qualcosa dentro direbbe qualcuno...





    L'intervento di Odifreddi non mi sembra così inconcepibile.
    Solo la prima parte (quella etimologica) lascia un po' a desiderare: pare che l'autore voglia portare più acqua possibile al suo mulino, magari destando sensazione nel lettore.
    Ma nella seconda parte c'è poco da eccepire:

    "Cosi' come, se volessimo dimostrare che il Cristianesimo ha costituito non la molla o le radici del pensiero democratico e scientifico europeo, bensi' il freno o le erbacce che ne hanno consistentemente soffocato lo sviluppo, dovremmo turarci il naso e ripercorrerne la storia maleodorante del sangue delle vittime delle Crociate e dei fumi dei roghi dell’Inquisizione.

    E per evitare che quella storia si potesse troppo facilmente dismettere come « cosa d’altri tempi », dovremmo ricordare che anche la nostra epoca ha le sue crociate e le sue inquisizioni: perche´ conquistare i pozzi di petrolio dei Musulmani, o fare referendum contro le biotecnologie, non e' troppo diverso dal liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli, o processare l’eliocentrismo. Soprattutto quando il Dio che « lo vuole » o « e' con noi » o e' lo stesso il cui nome, oltre a essere invocato nelle chiese, si incide sulle fibbie naziste e si stampa sui dollari statunitensi.

    Non si tratta, naturalmente, di fare di ogni erba un fascio, benche´ la Chiesa Cattolica sia riuscita nel Novecento a fare con ogni fascio un concordato. Terremo dunque distinte le posizioni delle varie denominazioni del Cristianesimo, ma ci concentreremo naturalmente sul Cattolicesimo: non certo per le sue immaginarie pretese di costituire la varieta' autentica della religiosita' cristiana, bensi' per le sue reali capacita' di condizionare la vita politica, economica e sociale delle nazioni del Sud Europa e del Sud America (non a caso, le piu' arretrate dei loro continenti).

    In fondo, e' proprio perche´ il Cristianesimo in generale, e il Cattolicesimo in particolare, non sono (soltanto) fenomeni spirituali, e interferiscono pesantemente nello svolgimento della vita civile di intere nazioni, che i non credenti possono sempre rivendicare il diritto, e devono a volte accollarsi il dovere, di arginare le loro influenze: soprattutto quando, come oggi, l’anticlericalismo costituisce piu' una difesa della laicita' dello Stato, che un attacco alla religione della Chiesa.

    In condizioni normali, una tale difesa sarebbe naturalmente compito delle istituzioni e dei rappresentanti del popolo. Purtroppo, pero', questi sono invece tempi anormali e anomali, in cui presidenti, ministri e parlamentari fanno a gara per genuflettersi di fronte a papi, cardinali e vescovi, e ricevono man forte dagli apostati non solo del Comunismo e del Socialismo, ma addirittura del Risorgimento.

    A testimonianza bastera' ricordare, da un lato, i reciproci salamelecchi tra i presidenti Sandro Pertini e Carlo Azeglio Ciampi e i pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI (per non parlare delle invocazioni alla Madonna nei discorsi di insediamento di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale il 28 maggio 1992 e di Pier Ferdinando Casini a Montecitorio il 31 maggio 2001); dall’altro lato, la presenza di Massimo D’Alema e Walter Veltroni in piazza San Pietro il 6 ottobre 2002, alla cerimonia di beatificazione di Josemari´a Escriva´ de Balaguer, fondatore della famigerata Opus Dei.

    Tocca dunque ai cittadini comuni doversi far carico della difesa del laicismo (da laos, « popolo », e laikos, « popolare »), per ovviare alle deficienze dei loro rappresentanti. E, nella fattispecie, tocca a un matematico farsene carico, per ovviare questa volta alle deficienze dei filosofi. Soprattutto di quelli che a parole si dichiarano laici, ma nei fatti risultano essere piu' papisti del papa: un’impresa olimpica, tra l’altro, visti i papi che corrono. E naturalmente un matematico non poteva non fare omaggio, almeno nel titolo, al piu' illustre dei suoi predecessori: il Bertrand Russell di Perche´ non sono cristiano, che nel 1957 fece il controcanto al Perche´ non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce (Laterza, Bari, 1943). Ovvero, ogni epoca ha non solo i suoi filosofi collaborazionisti, ma anche i suoi matematici resistenti.

    L’assonanza col motto di Søren Kierkegaard non possiamo essere cristiani e' invece soltanto pura omofonia: sta infatti a indicare non la supposta inadeguatezza del fedele, che gli impedirebbe di raggiungere un autentico rapporto personale con Cristo, ma la dimostranda assurdita' della fede cristiana stessa, che pretende di continuare a propinare all’uomo occidentale contemporaneo stantii miti mediorientali e infantili superstizioni medioevali.

    Andiamo dunque insieme alla scoperta di questi miti e di queste superstizioni, per mostrare candidamente che non tutto va per il meglio nella (sedicente) migliore delle fedi possibili. Se poi i panglossiani « credini » e « iddioti » manterranno ottimisticamente il loro Credo e il loro Iddio, saremo tutti felici: in fondo, e anche per principio, l’ateismo non e' una fede, e non fa opera di sconversione. Rivendica soltanto, cristianamente, di poter dare alla Ragione cio' che e' della Ragione. E non dimentica, volterrianamente, che bisogna coltivare anche il proprio giardino, e non soltanto quello dell’Eden."


    Tra l'altro, il primo paragrafo ricalca fedelmente la posizione sostenuta a suo tempo da Bertrand Russell nel primo capitolo del suo "Perché non sono cristiano", citato anche da Odifreddi in questo brano. A onor del vero, Russell parlava di come la chiesa ha ritardato il progresso; non argomentava, quindi, direttamente contro il cristianesimo.
    E questo mi sembra ovvio. Non è il credo in sé ad essere nocivo o benefattore: tutto dipende da come gli uomini lo interpretano. Va da sè che meriti e demeriti di ogni dottrina sono attribuibili ai suoi "amministratori".
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    Genoveffa2
    Post: 379
    Registrato il: 23/11/2004
    Utente Senior
    00 23/03/2007 11:47
    Leggo l'articolo di Odifreddi e mi chiedo: che livello di frustrazione può portare a scrivere certe cose?
    Nel merito uno può essere d'accordo o in disaccordo, considerarlo il verbo od una sonora minchiata (per me vale la seconda) ma di certo un tale spreco di pensieri, parole, studio, tempo, energia and so on per un qualcosa che non t'alimenta è perverso, ove non masochistico.
  • CorContritumQuasiCinis
    00 23/03/2007 12:22

    Scritto da: monos.84 22/03/2007 10.14
    Molto belli i tuoi ultimi 2 interventi, Cor!




    Grazie, Monos!


    Scritto da: monos.84 22/03/2007 10.14

    L'intervento di Odifreddi non mi sembra così inconcepibile.
    Solo la prima parte (quella etimologica) lascia un po' a desiderare: pare che l'autore voglia portare più acqua possibile al suo mulino, magari destando sensazione nel lettore.
    Ma nella seconda parte c'è poco da eccepire:







    Scritto da: Genoveffa2 23/03/2007 11.47
    Leggo l'articolo di Odifreddi e mi chiedo: che livello di frustrazione può portare a scrivere certe cose?
    Nel merito uno può essere d'accordo o in disaccordo, considerarlo il verbo od una sonora minchiata (per me vale la seconda) ma di certo un tale spreco di pensieri, parole, studio, tempo, energia and so on per un qualcosa che non t'alimenta è perverso, ove non masochistico.



    Prendo atto, con piacere, che su qualcuno abbia fatto breccia il "discorso" odifreddiano. Capisco i vostri punti di vista.

    Io mi trovo, in buona parte, in sintonia con ciò che afferma Giorgio Israel (tra l'altro Matematico e professore di matematica alla Sapienza di Roma) in un suo articolo su Il Foglio. Vi riporto per intero il testo:


    Per Odifreddi il compito della scienza è sfottere cristiani ed ebrei

    Matematico impertinente ma poco coraggioso
    Nel suo ultimo libro il professore dà di cretini ai credenti, ma si guarda bene dal coinvolgere i musulmani


    Immaginate che si pubblichi un libro dal titolo “Perché non possiamo essere musulmani”. Immaginate che vi si affermi che l’islam è una religione per «letterali cretini e non adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo», e si spieghi che, poiché «la statistica insegna» (sic) che metà della popolazione mondiale è cretina, non è da stupirsi che ci sia un miliardo di musulmani. Immaginate che si sbeffeggi Maometto come “el libertador” e “el conquistador”. Immaginate tantissime piacevolezze consimili e tirate le somme. Le reazioni a un simile libro, disponibile a pile nelle librerie, farebbero impallidire quelle alle celebri vignette danesi. Il ministro degli interni dovrebbe proteggere con una robusta scorta l’autore, l’esimio professor Piergiorgio Odifreddi, colpito da una fatwa, in attesa che il ministro degli esteri calmi le acque, inviandolo in esilio su un atollo per evitare il taglio dei rifornimenti petroliferi.
    Ma non temete. Il libro c’è, ma al posto dei musulmani ci sono i cristiani. Il professor Odifreddi si proclama ateo integrale, è un leader dell’UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti), assieme a Carlo Flamigni, Margherita Hack, Pietro Omodeo, Sergio Staino ed altri, ma, sebbene consideri la religione roba da minorati mentali, picchia duro soltanto su due religioni: ebraismo e cristianesimo. Anzi, si mostra commosso per i soprusi che le due più malefiche creazioni dell’idiozia umana hanno esercitato nei confronti delle altre religioni. Insomma, l’esimio professore non è un cuor di leone, ma l’espressione del più comune conformismo: quello di chi corre a tirare pugni laddove è certo di non correre rischi, e anzi dove spera di essere incoronato novello Voltaire.
    Le finalità del libro sono chiare. In primo luogo, mostrare che l’ebraismo è, in soldoni, il tentativo di stabilire su basi teologiche il diritto a una terra: un disegno perverso che ha condotto alla costituzione di Israele, dal nostro definito in un’intervista uno “stato fascista”. E poi dimostrare che quel tal Gesù era mezzo mago, mezzo imbonitore di ridicole storielle, sulle quali è stato costruito un edificio teologico inconsistente e assurdo e un sistema di potere che ha prodotto soltanto delitti e misfatti. Del resto, è noto da un pezzo che questa è la missione del professor Odifreddi. Ma ora siamo all’ossessione. Qualsiasi cosa gli si chieda, anche che tempo fa, il professore risponde imprecando contro Dio e Gesù. In una recente intervista, gli è stato chiesto cosa pensasse del progetto francese di introdurre il calcolo aritmetico fin dall’asilo e prontamente ha risposto che saper fare 2 + 2 predispone a capire meglio che le tesi secondo cui siamo stati creati da Dio o sotto un cavolo sono entrambe “spiegazioni demenziali”.
    Le letture recenti del professor Odifreddi sono il “Diario di Bolivia” ed il manuale “La Guerra di Guerriglia” di Che Guevara, come racconta in un’intervista, «forse l’ultima prima di imbracciare il fucile e andare in montagna»: forse crede di dar prova di humour e non sa che in montagna col fucile ci sta da un pezzo. Almeno fin dal suo “Il matematico impertinente” in cui dichiarava guerra all’era delle tre B, Berlusconi, Benedetto XVI e Bush. Del primo si è disfatto. Liquiderà il secondo con questo libro, e completerà la trilogia con la demolizione del Grande Satana USA (e, come corollario, del Piccolo Satana sionista). Per realizzare il secondo obbiettivo, il nostro non si è risparmiato, almeno in apparenza, vista la mole di citazioni e di disquisizioni filologiche di cui il libro è cosparso. Si direbbe che egli abbia passato anni a studiare l’ebraico e ad approfondire l’esegesi biblica – una via crucis intellettuale, come confessa nauseato. Ma per crederlo bisogna essere ingenui o bendisposti. Non serve neanche grattare in superficie per constatare di quale accozzaglia malamente rabberciata di informazioni di terza mano, probabilmente raccolte sul web, su enciclopedie e dizionari, sia composta la via crucis. È una sequenza di scoperte dell’ombrello (Elohim che è un plurale), di ridicole definizioni in pillola di temi su cui sono stati scritti libri (come il golem), o di elenchi di traduzioni di locuzioni bibliche, la cui diversità viene esibita come prova di non si sa bene quale confusione mentale anziché dell’incapacità del nostro ebraista di dirci qual è quella giusta. E francamente non vale la pena di continuare. Non soltanto perché la qualità del libro non lo merita, ma perché raramente è dato leggere una tale pizza, una vera via crucis di noia, ravvivata soltanto (per chi ama queste cose) da insulti o da osservazioni pecoreccie del tipo: «come simbolo del pene, il serpente sarà pure insinuante e viscido [sic], ma è un po’ moscio: può però facilmente ergersi in un duro bastone, e afflosciarsi in un serpente, anche nelle mani di Mosé».
    Potremmo chiudere qui ed anzi chiederci se valeva la pena spendere tante parole, se non fosse che questa vicenda tristanzuola solleva una questione importante. Il professor Odifreddi non è un quidam: egli si è ormai affermato come uno dei principali esponenti della cultura scientifica in Italia. Gli vengono conferiti premi ed onorificenze a mazzi. Di lui si parla, senza tema del ridicolo, non come di un dignitoso ricercatore, ma come di un “vertice mondiale”, che fa avanzare la cultura scientifica con uno “spirito acuto e brillante” e una “cultura di vastità rara” (sito Cicap di Piero Angela ed altri). Egli è il dominus della scienza sui giornali, sulle televisioni e sulle radio e non c’è festival, kermesse, teatro o manifestazione dedicata alla scienza di cui non sia la prima donna. Persino il sindaco di Roma, Walter Veltroni – incurante o ignaro di essere stato trattato da Odifreddi alla stregua di un leccapiedi, uno di coloro che si genuflettono davanti a papi e cardinali – gli ha conferito l’incarico di direttore scientifico del Festival della Matematica di Roma. Insomma, siamo in pieno “odifreddismo”. E qui occorre chiedersi perché e quali sono le conseguenze.
    Il fatto è che lo “stile Odifreddi” esprime al meglio la tendenza a ridurre la cultura e la divulgazione scientifica a spettacolo, festa, divertimento. Non c’è bisogno di difendere un’idea noiosa e austera della scienza per dire che non è sensato ridurla a una sagra della porchetta. È una buona idea imbonire i giovani facendo credere che la scienza sia qualcosa che si apprende giocando? Prendiamo il caso del Festival della Matematica. Vi si mette in scena una sfida tra il campione di scacchi Spassky e quindici matematici. Il risultato sarà ovviamente che le quindici “spalle” verranno sonoramente battute. Quale messaggio s’intende così trasmettere? Sfidiamo a trovarne uno dotato di un minimo di senso, salvo il fine in sé di inscenare uno spettacolo circense. E che dire della conferenza-spettacolo di Don Prezzemolo–Dario Fo? O dello show animato, manco a dirlo, da Serena Dandini? O della stantìa riproposizione del film “Morte di un matematico napoletano”, esemplare di una filmografia “matematica” in cui tutto si fa salvo che trasmettere un’idea sia pure ectoplasmatica di questa scienza? Come ha scritto Michele Emmer, «ben vengano le feste di qualsiasi cosa, anche di matematica, purché non pretendano di fornire la via maestra alla comprensione delle cose», mentre il guaio è che «nella glamourizzazione in corso vincono gli scienziati, ma perde la scienza».
    Ma c’è un secondo aspetto: l’“odifreddismo” sostituisce metodicamente i contenuti scientifici con contenuti politici e ideologici, con una battaglia laicista, atea, anticlericale, antiamericana, antisionista e quant’altro. Basta seguire la produzione letteraria di Odifreddi: i contenuti scientifici – peraltro sempre trasmessi con una divulgazione di qualità talmente discutibile da rendere le espressioni di lode una manifestazione di umiliante piaggieria – man mano si dileguano per lasciare il posto alla rissa politica.
    Le conseguenze si vedono. L’“odifreddismo” provoca soltanto contrapposizioni ideologiche frontali e furenti. Basta dare una scorsa, sul sito InternetBookshop, alla valanga di “recensioni” dei lettori ai libri di Odifreddi. È un mondo spaccato a metà: da un lato, i fans del professore, che proclamano la loro fede atea e postcomunista, arrivando persino a dire di essere certi che il libro è meraviglioso anche se non l’hanno ancora letto; dall’altro, coloro che si sentono beffati nella speranza di leggere di scienza e si vedono invece semplicemente dileggiati nelle loro convinzioni profonde. Un bel trionfo della razionalità, non c’è che dire.
    C’è chi difende Odifreddi dicendo che è comunque un bene che si parli di scienza e di matematica. È l’insulsa massima «qu’on en parle, bien ou mal, mais qu’on en parle». Vogliamo davvero far credere che il compito principale della scienza sia dimostrare che la religione è pura demenza? Il risultato sarà che metà dei giovani fuggirà verso altri lidi, e l’altra metà si iscriverà alle facoltà scientifiche credendo che studiare scienza significhi spernacchiare su Gesù e Mosé, gridare “Bush boia” o fare interviste a Hitler. Un bel capolavoro per chi piange da mane a sera sulle misere sorti della scienza in Italia.
    Coloro che hanno accettato, per ragioni mediatiche o politiche, Odifreddi come profeta ed esponente della cultura scientifica di questo paese dovrebbero riflettere. Se fossimo davvero – come pretende qualche imbecille – dei “nemici della scienza”, tiferemmo senz’altro “forza Odifreddi”.


    Giorgio Israel


    (Il Foglio, 13 marzo 2007)

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